Del come e del perché mi chiamo come mi chiamo.

Prima o poi mi sparerai alle spalle Angie.

Verdena.

Mi chiamo Angela, dal greco άγγελος, messaggera di Dio.

Di quale Dio, ancora devo capirlo, ma sicuramente ne troverò o ne inventerò uno che faccia al caso mio.

In realtà, ha sempre detto mia madre, avrei dovuto chiamarmi Alyssa, o Ashley, nomi ispirati dal suo profumo preferito. Non so il motivo per cui alla fine i miei genitori abbiano optato per un più classico nome da calendario, probabilmente devo ringraziare lo sconosciuto bisnonno Angiolo, e il fatto che nel 1991 dare ai figli nomi di profumi, continenti, animali, cose, frutta e città non era ancora di uso comune.

Non ho mai pensato al mio nome, da piccola. C’erano tante cose più importanti, per esempio le carte rare dei pokémon e la pizza rossa a merenda, ma ero contenta di non essere in classe con nessun’altra bambina che avesse il mio stesso nome: in un microcosmo popolato da un full di Giulia e Chiara, da un poker di Alessia, mi sentivo unica e speciale. E poi il maestro di matematica mi cantava Angela Angela angelo mio, come dice Tenco, e il mio nome mi sembrava bellissimo.

Il peggiore dei soprannomi che potessero rifilarmi, poi, era Ange, o Angy, per i finti anglofoni. Ho iniziato molto presto a chiedermi perché gli italiani di mia conoscenza si ostinassero ad usare la lettera y alla fine dei nomi nello stesso modo in cui negli ultimi anni si è iniziato ad usare la glassa di aceto balsamico: ovunque e a sproposito, come se fosse uno status symbol in grado di elevarti e raffinarti.

Alle scuole medie, abbandonati i grembiuli bianchi e le trecce per dei pantaloni a quadri scozzesi e un taglio di capelli che con il senno di poi posso soltanto definire imbarazzante, cambiai nome, quasi per caso. Una lezione introduttiva di latino e una gita nel capoluogo toscano mi ribattezzarono Anci. L’iter della trasformazione, ridotto all’osso, parte dalla declinazione della parola Ancilla, passa dalla frase ECCE ANCILLA DOMINI, dal Vangelo di Luca, scolpita sulla facciata del duomo di Firenze, per concludersi con la semplice e banale constatazione da parte dei miei compagni di classe che quella parola aveva assonanza con il mio nome.

Da messaggera, così, mi sono ritrovata ad essere serva del Signore; decisamente non uno scambio vantaggioso, a ripensarci adesso.

Sono stata Anci per molti anni, per tutte le scuole superiori, per i due fallimentari anni di lezioni affollate e treni persi all’università, dimenticandomi del mio vero nome, ormai usato solo dalle nonne, dimenticandomi di essere una messaggera, di portare notizie, di diffondere parole e spingendomi ad affrontare la vita con la stessa sottomissione di Maria davanti all’Arcangelo Gabriele, nel momento dell’Annunciazione. Per un lungo periodo della mia vita mi sono dimenticata il mio nome e ho soffocato i lamenti dei miei sogni rinchiusi in un baule sigillato ermeticamente. Poi, senza avere la più pallida idea dell’esistenza di questo processo mentale che scopro soltanto adesso, nel momento in cui scrivo, mi sono sentita di nuovo allineata al mio nome, come l’aurora dalle dita rosate che porta ogni giorno il messaggio di un nuovo inizio. O come la bidella che ogni mattina, imperturbabile, portava in classe alla prima ora il foglio delle presenze.

Uno dei più grandi traumi legato alla riappropriazione del mio nome è stato scoprire come nell’ottanta per cento dei casi, presentandomi per la prima volta ad una persona, il mio interlocutore, probabilmente credendo di essere il primo a raggiungere tali vette di spiritosaggine o, ancora peggio, credendo di omaggiarmi, iniziasse a declamare, appena accennando la melodia o urlando fiero a squarciagola (e credetemi, in quei momenti, io, la gola gliela squarcerei volentieri) quella terribile non-oso-definirla-canzone di Checco Zalone.

Provate voi a rimanere impassibili quando svariate persone pressoché sconosciute vi urlano in faccia faccio la pipì, faccio la pupù ma con la mia mente sto costantemente ad Angela.

Ho provato ad informarmi se potessi chiedere un risarcimento per danni morali. La risposta purtroppo è no.

Ma alla fine, nonostante alcuni cantanti non mi abbiano voluto un granché bene, devo ammettere che il mio nome mi veste perfettamente. Anche dopo i chili in più delle feste di Natale, anche quando mi guardo allo specchio e non mi riconosco e mi sembra di avere gli occhi diversi o i capelli strani, il mio nome è sempre con me, unico a non avermi mai abbandonata, da quando ho urlato la prima volta, in una sala parto dai muri azzurri.

Mi accompagnerà per tutta la vita, verrà ripetuto quando sarò cenere. Dai miei nipoti, forse, da sconosciuti che lo leggeranno sulla copertina di un libro, o di un file XHTML. Il mio nome, che è stato urlato da genitori adirati, sussurrato da amanti bravi e meno bravi, chiamato per appelli e controappelli in scuole, ospedali, uffici, che è l’unica cosa che molte persone sanno di me. Il mio nome che mi appartiene e che è l’unica cosa che posso essere certa di possedere.